
Hai presente quelle persone che, quando provi ad affrontare un problema, si irrigidiscono, cambiano stanza, smettono di rispondere ai messaggi o ancor prima ti evitano per giorni e settimane? E magari, quando provi ad esprimere un bisogno o un disagio, ti ritrovi accusata di essere “troppo aggressiva”, “dura” o “irrispettosa dei loro tempi”?
Ecco, oggi parliamo proprio di loro, delle persone che evitano il confronto diretto e che continuano a evitare la comunicazione trincerandosi dietro alla scusa di sentirsi attaccate, sbandierando il vittimismo di “Non sono io l’aggressivo“.
Attenzione perchè “Si può urlare anche stando zitti.” e in realtà, la peggior forma d’aggressività è quella subdola dell’aggressività passiva, quando il silenzio diventa una forma di manipolazione punitiva che lascia l’interlocutore svuotato a distanza.
Cos’è l’aggressività passiva?
L’aggressività passiva è una modalità comunicativa e relazionale in cui la rabbia, la frustrazione o anche più semplicemente il disaccordo non vengono espressi apertamente, ma vengono agiti in modo indiretto, mascherato, ambiguo.
È come se l’aggressività indossasse un cappotto da agnello: non morde apertamente, si maschera, non si manifesta a viso aperto, bensì con silenzi ostili, ritardi calcolati, risposte vaghe, sarcasmi camuffati da ironia, dimenticanze strategiche.
Un esempio classico? “Ah, scusa, domani non ci sono” (dimenticanza casuale segnalata all’ultimo minuto, proprio mentre siete ai ferri corti da giorni o settimane).
Le forme più comuni dell’aggressività passiva
- Il silenzio punitivo: non ti rispondo più. Al telefono, ai messaggi, alle richieste. Non ti dico che sono arrabbiato/a. Ti punisco facendo sparire la mia voce, la mia presenza, la mia attenzione.
- Il procrastinare o sabotare: “Certo, ci penso domani”... ma domani non arriva mai. Rimando, dimentico, faccio male. Così non dico di no, ma lo faccio nei fatti.
- Il vittimismo manipolativo: ogni tentativo di chiarimento diventa un attacco. “Perché ce l’hai con me?”, “Mi fai sentire una nullità”. E tu ti ritrovi a doverti scusare pur avendo ragione.
- Il sarcasmo o la finta ironia: battutine velenose, ma sempre con il sorriso. “Ma dai, sei sempre così sensibile…” oppure “Eh, se solo tu fossi più rilassata…”. Il messaggio è ambiguo, ma il veleno arriva dritto.
Da dove nasce questo stile relazionale?
Spesso, l’aggressività passiva affonda le radici in un’educazione in cui esprimere rabbia o conflitto era percepito come pericoloso, sbagliato o fonte di rifiuto. In molte famiglie, infatti, l’emozione del disaccordo non è mai stata normalizzata: meglio tacere che litigare, meglio ingoiare che ferire.
Così, crescendo, alcune persone imparano che l’unico modo sicuro per esprimere il malessere è farlo in modo ambiguo. Senza mai esporsi, senza mai assumersi la responsabilità e metterci la faccia: un po’ come tirare la pietra e nascondere la mano.
L’aggressività passiva non è un “difetto di carattere”, ma spesso il frutto esperienze relazionali precoci, e contesti familiari dove le emozioni difficili erano inibite, negate o punite.
Molte persone passivo-aggressive non hanno imparato un modo sicuro per gestire rabbia e frustrazione: esprimerle apertamente, da bambini, significava rischiare il rifiuto, la punizione o il silenzio dei genitori.
E così si è sviluppato un meccanismo di difesa che potremmo sintetizzare così: “Se dico che sono arrabbiato, non mi vorranno più bene. Quindi taccio, ma intanto mi faccio sentire… a modo mio.” Dal punto di vista della psicologia dello sviluppo, questi schemi sono spesso associati a stili di attaccamento evitante o disorganizzato:
Nell’attaccamento evitante, l’emozione viene vissuta come un ostacolo, un segno di debolezza. La persona impara a smorzarla, a sopprimerla. Ma la rabbia, se non espressa, cerca comunque una via per uscire e spesso lo fa sotto forma di passività ostile.
Nell’attaccamento disorganizzato, invece, il legame affettivo è percepito come pericoloso o imprevedibile. La comunicazione diventa allora ambigua, contraddittoria: ti avvicino e ti respingo, ti parlo e poi ti ignoro, ti cerco ma ti punisco.
Inoltre, anche alcune forme di educazione e socializzazione possono contribuire al problema. In contesti in cui la rabbia viene demonizzata (“Non ti devi arrabbiare!”, “Le brave bambine stanno zitte!”, “Non si urla in casa!”), i bambini imparano che per essere amati bisogna essere docili, accomodanti, “buoni”. Ma la rabbia, come ogni emozione, non scompare: si sposta. E prende strade indirette.
Da adulti, queste persone possono diventare emotivamente passive ma relazionalmente aggressive: non ti dicono che sono arrabbiate, ma lo fanno intuire. Non ti affrontano, ma ti puniscono. Non ti attaccano, ma ti destabilizzano.
Infine, non va dimenticato un aspetto culturale: in molte culture (compresa la nostra), esprimere il dissenso è ancora percepito come minaccia, specialmente se fatto da chi ha meno potere nella relazione (donne, figli, dipendenti, pazienti). Questo porta molte persone a usare strategie indirette per preservare un’apparente armonia, anche a costo di sacrificare l’autenticità.
Gli effetti sull’interlocutore: logoramento invisibile
Chi ha a che fare con una persona passivo-aggressiva si ritrova spesso esausto, confuso, colpevolizzato. È un logoramento silenzioso: non ci sono urla, ma ci si sente continuamente sotto accusa. Non c’è conflitto aperto, ma un continuo senso di gelo relazionale.
E il problema è che spesso chi subisce tutto questo finisce per interiorizzare la colpa: “Forse esagero. Forse pretendo troppo. Forse sono davvero aggressiva…”
La verità? Esprimere un bisogno non è aggressività. Chiedere chiarezza non è un affronto ma la base di una comunicazione sana.
La persona passivo-aggressiva è manipolatoria?
Non sempre in modo consapevole, ma sì, spesso il comportamento passivo-aggressivo ha effetti manipolatori.
Ma cosa significa essere manipolatori? Essere manipolatori non vuol dire necessariamente essere malintenzionati. In psicologia, la manipolazione è qualsiasi comportamento finalizzato a ottenere qualcosa dall’altro (attenzione, controllo, approvazione, potere, vendetta) senza esplicitare direttamente il proprio bisogno, ma agendo per vie traverse, spesso facendo leva sul senso di colpa, sulla confusione o sul bisogno altrui di rimediare.
Ecco perché l’aggressività passiva può diventare una forma di manipolazione relazionale:
- Usa il silenzio, il sarcasmo, la dimenticanza strategica o il vittimismo per punire l’altro senza dichiararlo apertamente.
- Evita il conflitto diretto, ma genera disagio e senso di colpa nell’interlocutore;
- Sposta la responsabilità emotiva: chi è passivo-aggressivo sembra innocente, mentre l’altro viene dipinto come esagerato o aggressivo.
Spesso la persona passivo-aggressiva non è pienamente consapevole di quanto stia manipolando: ha interiorizzato questo stile comunicativo come unico modo “sicuro” per esprimere disagio, rabbia o bisogno di controllo.
In altri casi, però, soprattutto nelle relazioni disfunzionali o narcisistiche, può usare questo stile in modo deliberato per destabilizzare, colpevolizzare o tenere l’altro in uno stato di incertezza.
La passività aggressiva è spesso una forma di manipolazione involontaria, ma può assumere tratti manipolatori più gravi se diventa cronica, rigida o consapevolmente utilizzata.
Come uscirne? Alcuni spunti pratici
- Dare un nome alle cose: riconoscere che si sta vivendo una dinamica passivo-aggressiva è il primo passo per non farsi inghiottire dal senso di colpa. “Questa non è una mia esagerazione. Questa è una forma di ostilità passiva.”
- Fissare dei limiti: se il comportamento si ripete, è importante dire con chiarezza: “Non posso accettare che ogni volta che c’è un problema tu smetta di parlarmi. Ho bisogno di un dialogo, non di punizioni silenziose.”
- Coltivare l’assertività: imparare a comunicare in modo fermo ma rispettoso è la miglior forma di difesa contro le manipolazioni. L’assertività dice: “Io valgo. Tu vali. Possiamo parlarne.”
- Mindfulness e regolazione emotiva: in queste dinamiche, è facile cadere nella reattività. La mindfulness può aiutare a riconoscere il disagio senza lasciarsi travolgere, coltivando una presenza lucida e compassionevole verso sé stessi.
- Considerare la chiusura relazionale (quando si ha a che fare con pattern cronici e non disponibili al cambiamento.):
Se, nonostante il dialogo, l’assertività e la chiarezza, la persona continua a utilizzare il silenzio come arma e a rifugiarsi nella manipolazione, è legittimo domandarsi: “Cosa ci sto facendo ancora qui?”.
Non tutte le relazioni possono essere aggiustate, soprattutto quando la comunicazione diventa unilaterale e tossica. Prendere le distanze, fisiche o emotive, può essere un gesto di cura verso di sé. Non è fuga: è preservazione.
Come recita un proverbio: “Chi ti spegne ogni giorno, non merita di abitare il tuo fuoco.” A volte, la persona passivo-aggressiva non vuole o non può mettersi in discussione, e allora rimanere diventa un logoramento continuo. In questi casi, lasciare la relazione è un atto di rispetto verso sé stessi.
“L’aggressività passiva è come una pioggia sottile: non ti accorgi subito di essere bagnato, ma ti ritrovi fradicio.”